sabato 5 luglio 2025

Eolico a Taranto: Oltre gli Annunci del Governo, le Domande Critiche su Territorio e Profitti


Con toni trionfali, la politica celebra un nuovo, decisivo passo verso il futuro "green" dell'Italia. Una nota stampa diffusa dal deputato Alessandro Colucci di Noi Moderati annuncia che "la firma del decreto interministeriale che individua negli scali portuali di Taranto e Augusta le aree idonee allo sviluppo dell’eolico offshore nazionale rappresenta un passaggio fondamentale". Nel comunicato si dipinge un quadro idilliaco: una fonte di energia dal "potenziale enorme", impianti che "hanno il grande merito di non impattare sul territorio e sul paesaggio", investimenti per 78 milioni di euro e "nuove opportunità occupazionali".
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Una narrazione ufficiale, pronta per i titoli dei giornali, che punta a rassicurare l'opinione pubblica. Tuttavia, è doveroso analizzare criticamente questi annunci, per capire se dietro la facciata si nascondano realtà complesse. Emerge infatti un quadro che, secondo molti osservatori, sembra dominato da logiche di speculazione finanziaria, con impatti ambientali spesso sottaciuti e un modello di sviluppo che tratta i territori come risorse da sfruttare.

"Nessun impatto": un'affermazione che va verificata

L'affermazione secondo cui questi giganti d'acciaio posizionati in mare "non impattano sul territorio e sul paesaggio" è forse la più ottimistica, ma anche quella che richiede maggiore scrutinio. L'impatto non si limita a quello visivo. Esiste un impatto meno evidente ma persistente. Come è intuibile, le pale eoliche, costruite con resine e fibre composite, sono soggette a una costante erosione. Il vento, la pioggia e la salsedine le possono "sfrigolare" incessantemente, con il rischio di liberare nell'ambiente microplastiche e sostanze chimiche come il Bisfenolo A (BPA), un noto interferente endocrino. Studi scientifici, come quelli condotti dall'Università di Strathclyde, hanno già sollevato l'allarme su questa potenziale forma di inquinamento silenzioso che potrebbe contaminare mare, aria e catena alimentare. Si delinea così il paradosso di un'energia definita pulita che potrebbe rilasciare sostanze inquinanti. Un aspetto cruciale che, nella comunicazione ufficiale, sembra non trovare spazio.

A chi giova l'investimento? Il gioco dei giganti finanziari

La nota stampa parla di 78 milioni di euro di investimenti. Sembra una cifra enorme, ma è solo una piccola parte di un business miliardario. Questi progetti faraonici, onshore e offshore, non starebbero in piedi un solo giorno senza due elementi chiave: i massicci finanziamenti pubblici (PNRR in testa) e il capitale dei colossi della finanza globale. Fondi come BlackRock, Vanguard e State Street sono tra i principali motori di questa transizione a livello mondiale. Essi investono dove lo Stato garantisce incentivi e profitti sicuri, ma non è sempre detto che ciò si traduca in un reale beneficio per la comunità.

Il ritorno economico per il territorio rischia di essere, nella migliore delle ipotesi, incerto e temporaneo. Queste centrali hanno una vita utile di circa 20-25 anni, al termine dei quali i costi di smantellamento e bonifica – se mai verranno affrontati seriamente – potrebbero ricadere interamente sulla collettività, molto tempo dopo che i profitti privati saranno stati riscossi e portati altrove. Il timore è che l'obiettivo non sia la sostenibilità a lungo termine, ma il profitto a breve termine, lasciando dietro di sé il "depauperamento del territorio".

Un modello predatorio che si ripete

Taranto non è un caso isolato. È solo l'ultima tessera di un mosaico che sembra replicare un modello predatorio, in espansione su tutta la nazione. Come denuncia il nostro articolo "L'assalto della Sardegna: il sistema energetico sotto inchiesta", l'isola è da anni il laboratorio di questa aggressione, con progetti che minacciano di stravolgere un patrimonio paesaggistico unico al mondo. 

Lo schema è spesso lo stesso: si invoca la "pubblica utilità" per silenziare ogni opposizione. Una volta che questa etichetta viene apposta, come spiegato nell'amaro articolo "Il territorio non è più nostro"(nostro articolo), le comunità locali rischiano di essere espropriate non solo delle loro terre, ma anche del loro diritto di decidere sul proprio futuro. 

E mentre la politica firma decreti a Roma, sul campo la gente si organizza. Comitati come Ulivivo si battono contro la distruzione di aree protette e paesaggi agricoli, mostrando una resistenza che la narrazione ufficiale tende a ignorare. Leggete il nostro articolo.

Il paradosso si estende: anche il fotovoltaico riscalda il pianeta?

Questa logica industriale non si limita all'eolico. Anche il fotovoltaico su larga scala, l'altra icona della "svolta green", nasconde delle criticità. Immense distese di pannelli scuri, sostituendo terreni agricoli o macchia mediterranea, assorbono molta più radiazione solare. Questo fenomeno, legato alla riduzione dell'"effetto albedo" (la capacità di una superficie di riflettere la luce solare), può creare vere e proprie "isole di calore", aumentando la temperatura a livello locale. Paradossalmente, una soluzione pensata per combattere il riscaldamento globale, su scala locale potrebbe contribuire ad aggravarne alcuni effetti.

Siamo di fronte a una transizione ecologica che, invece di curare il pianeta, sembra voler applicare gli stessi modelli industriali e speculativi che ci hanno portato a questa crisi. Ci dicono che è innovazione, ma a molti sembra solo vecchio colonialismo energetico. La domanda, dunque, non è essere a favore o contro le rinnovabili. La domanda è: a chi giova realmente questa transizione? Perché, a guardare bene, i profitti sembrano destinati ai soliti noti, mentre i costi ambientali e sociali restano, come sempre, a carico di tutti noi.

1 commento:

Disco Novità - Ufficio Stampa ha detto...

Da tempo seguo il dibattito sulla transizione energetica e mi colpisce sempre come la narrazione ufficiale semplifichi questioni enormemente complesse. Si parla di "energia pulita" come un dogma, ma raramente ci si sofferma sui dettagli che fanno tutta la differenza.

Ad esempio, l'idea che le pale eoliche, erose costantemente dal vento e dagli agenti atmosferici, rilascino microplastiche e sostanze come il BPA nell'ambiente è un pensiero che mi inquieta profondamente. E oltre a questo, c'è un tema di cui quasi nessuno parla: cosa ne faremo tra 20 anni di queste migliaia di tonnellate di pale in fibra di vetro, un materiale quasi impossibile da riciclare che finirà in discarica? È un costo ambientale futuro che stiamo deliberatamente ignorando.

Lo stesso vale per i mega-impianti fotovoltaici che, coprendo ettari di terreno agricolo, creano "isole di calore" e alterano i microclimi locali.

A mio avviso, il problema è che stiamo applicando una logica puramente industriale e finanziaria – quella dei grandi fondi d'investimento che cercano profitti garantiti dallo Stato – a un problema che dovrebbe essere ecologico e comunitario. La vera ecologia è rispetto del territorio e delle sue specificità, non la sostituzione di un'industria inquinante con un'altra che presenta nuove e diverse criticità. La soluzione non può essere calata dall'alto, ma deve nascere dai territori, con impianti diffusi e a misura di comunità.

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