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domenica 20 luglio 2025

Italia all’incrocio: tra Green Deal e speranza industriale

Un manifesto per difendere PMI e automotive

«Il bilancio europeo 2028–2034 è un bivio storico. L’Italia, che finora ha mostrato un cuore di panna verso l’Ue, non può limitarsi a prenderne atto: deve condizionarlo… Se il prossimo bilancio non prevede la cancellazione definitiva del Green Deal e un piano industriale strutturato per il rilancio dell’automotive, il governo italiano non deve firmarlo».

Lo ha dichiarato Stefano Ruvolo, presidente di Confimprenditori, in modo netto e senza giri di parole: «Il palco è un onore, non un diritto»: così il nostro Paese non può più fare da comparsa, ma assumere un ruolo di protagonismo in Europa.

1. Dal comunicato alla realtà: cosa c’è sul campo

Confimprenditori punta il dito contro un Green Deal ritenuto oggi «ideologico, miope e privo di basi industriali», che sta gravando sulle PMI dell’indotto automotive, costrette a chiudere o licenziare. A suo avviso, la Cina sta invadendo il mercato europeo con auto elettriche a basso costo — e questo senza un’adeguata strategia del Vecchio Continente. Ruvolo aggiunge: «Il governo ha l’occasione di incidere davvero, di passare dalle parole ai fatti».

2. Il coro europeo di allarme

L’Italia non è sola in questa battaglia.

  • Il ministro dell’Industria Adolfo Urso ha definito il divieto UE del motore a combustione a partire dal 2035 una «pazzia», in grado di minacciare centinaia di migliaia di posti di lavoro, chiedendo una revisione o almeno flessibilità nell’applicazione.

  • La premier Giorgia Meloni ha messo in guardia contro una “desertificazione industriale” dell’Europa, chiedendo di considerare combustibili alternativi come biofuel e idrogeno e una valutazione delle emissioni sul ciclo di vita completo del veicolo.

  • Anche il Parlamento europeo ha riconosciuto il problema, approvando modifiche alla normativa CO₂ che concedono più tempo alle imprese per adeguarsi.

3. Le ragioni del dissenso

Institutional research rivela che il Green Deal impone alle auto nuove (fossil‑fuel) un’inesorabile transizione all’elettrico entro il 2035. Tuttavia, molte PMI europee faticano a sostenere l’innovazione richiesta, sia per costi elevati sia per gap tecnologici rispetto ai giganti cinesi o statunitensi. I costi di adeguamento normativo pesano moltissimo: basti pensare che le direttive ambientali impongono spese medie di centinaia di euro a impresa.

4. Serve un piano industriale europeo strutturato

Secondo Ruvolo, la risposta non può essere solo ideologica: ci vuole un vero piano industriale europeo, con investimenti mirati, incentivi alle filiere locali e la neutralità tecnologica. Solo così si potrà competere con chi, come la Cina, produce auto elettriche a costi competitivi sfruttando economie di scala e manodopera a basso costo.

5. L’ultima chiamata: Italia protagonista o comparsa?

Il 17 luglio a Roma, il messaggio è stato chiaro: «senza voto favorevole dell’Italia quel bilancio non potrà passare». È una mossa audace: un governo che si schiera contro l’intera architettura del Green Deal non lo si vedeva da tempo. Confimprenditori invita a trasformare questa dichiarazione in pratica politica — non più “camerieri” ma “capotavola” in Europa.

6. Conclusione: l’ora della responsabilità

Lo slancio europeo per la decarbonizzazione è sacrosanto, ma un approccio rigido rischia di spogliare l’Europa della sua linfa produttiva. Quello italiano, allineato a numerosi partner, chiede equilibrio tra transizione verde e sicurezza industriale, tra ecosostenibilità e redditività.

Il comunicato di Ruvolo è una chiamata alle armi: difendere le nostre imprese, non subire ancora un’agenda imposta da Bruxelles. Adesso spetta al governo, e all’Italia, decidere se restare spettatori o diventare finalmente attori davvero protagonisti del nuovo corso europeo.

venerdì 28 marzo 2025

Polizze Catastrofali: Proroga dell'Obbligo al 31 Ottobre 2025, ma Resta una Beffa per le Imprese Italiane.


Ancora una volta, il governo italiano dimostra la propria incapacità nel gestire le emergenze economiche e legislative con lucidità e pragmatismo. L’obbligo di stipulare una polizza assicurativa contro le catastrofi naturali, inizialmente previsto per il 31 marzo, slitta ora al 31 ottobre 2025. Un rinvio che non risolve il problema ma lo trascina nel tempo, aumentando l’incertezza per oltre 4 milioni di imprese italiane già alle prese con una crisi senza precedenti.

Un'Imposizione Mascherata da Protezione

La misura, prevista dall’articolo 22 del Decreto-Legge n. 104/2023, che avrebbe dovuto offrire una maggiore sicurezza economica alle aziende in caso di calamità naturali, si è rivelata fin da subito un’imposizione sconsiderata e mal calibrata. Il costo delle polizze, che può raggiungere i 12.000 euro annui, si trasforma in un vero e proprio salasso per le piccole e medie imprese, già schiacciate da un’inflazione galoppante, dall’aumento dei costi energetici e dalla crescente difficoltà di accesso al credito.

Non solo. La normativa presenta lacune clamorose: non chiarisce quali fenomeni siano coperti, non prevede alcun rimborso per le merci danneggiate e, ciliegina sulla torta, impone una tassa occulta del 22% sui premi assicurativi, incassata direttamente dallo Stato. Una manovra che, piuttosto che tutelare le aziende, le trasforma in bancomat per l’erario.

Un Rinvio che Non Risolve Nulla

L’emendamento presentato da Fratelli d’Italia per posticipare l’obbligo al 31 ottobre 2025 è stato accolto con un sospiro di sollievo dalle associazioni di categoria, ma la verità è che si tratta solo di un palliativo. Le criticità strutturali della norma restano inalterate: l’obbligo non viene eliminato, ma semplicemente rinviato, senza alcuna garanzia che nel frattempo vengano introdotte misure di sostegno o agevolazioni per le imprese.

Matteo Ricci, europarlamentare del PD, ha definito la misura una "tassa occulta" e ha evidenziato come essa penalizzi soprattutto le imprese localizzate in aree ad alto rischio, come le Marche, l’Emilia-Romagna e la Toscana, già colpite da alluvioni devastanti. A peggiorare il quadro, l’incoerenza del governo, che da un lato nega il cambiamento climatico e dall’altro impone polizze obbligatorie per proteggersi da eventi estremi. 

Ma la questione è più complessa di quanto si voglia far credere. Molte di queste catastrofi, più che da fenomeni naturali incontrollabili, derivano dall’incuria e dalla mancata manutenzione di infrastrutture come viadotti e argini fluviali.

 Ad esempio, in Emilia-Romagna, le esondazioni di fiumi e torrenti sono state attribuite non solo alle intense precipitazioni, ma anche alla scarsa manutenzione degli argini fluviali (https://www.teleambiente.it/alluvione-emilia-romagna-report/). In Sicilia, la combinazione di siccità e alluvioni ha colpito gli stessi territori in tempi successivi, evidenziando la vulnerabilità legata alla gestione del territorio. (https://indicatoriambientali.isprambiente.it/it/pericolosita-da-alluvione/eventi-alluvionali)

Il tessuto imprenditoriale italiano, composto in larga parte da piccole e medie imprese, viene nuovamente messo alla prova con una politica che favorisce le compagnie assicurative a discapito dell’economia reale. Il governo avrebbe potuto adottare un approccio più equo, introducendo incentivi fiscali o creando un fondo pubblico per sostenere le imprese nelle aree più vulnerabili. Invece, ha scelto la via più semplice: obbligare gli imprenditori a pagare, senza offrire alcuna contropartita. 

Conclusione: Un Governo che Gioca d’Azzardo con l’Economia

Il rinvio dell’obbligo delle polizze catastrofali è solo una tregua temporanea in una battaglia che, senza soluzioni concrete, rischia di penalizzare gravemente l’intero comparto produttivo del Paese. Invece di scaricare costi e responsabilità sulle aziende, il governo dovrebbe investire in un piano strutturale per la prevenzione e la gestione dei disastri naturali. Ma, come sempre, si preferisce la strada della burocrazia inefficace e delle imposizioni fiscali mascherate da misure di tutela. Le imprese italiane meritano di meglio.

È davvero questa la strada giusta per il nostro Paese? Non sarebbe più sensato puntare su una manutenzione adeguata delle infrastrutture e una gestione più responsabile del territorio per ridurre i danni? E fino a che punto le sperimentazioni di geoingegneria stanno aggravando la situazione anziché risolverla? Spunti su cui riflettere.

Ecco l'ntervento di Paolo Zabeo coordinatore ufficio studi CGIA Mestre

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